Anticorpi combattivi per costruire una scena integrata

 

Carlo Lei scrive della terza edizione del Festival Anticorpi sul blog klpteatro.it

 

Un anticorpo è una proteina che agisce nel nostro sistema immunitario per neutralizzare corpi estranei come virus e batteri, spiegano con semplicità su internet. O, ipotizziamo noi, un corpo “contrario” all’usuale, alternativo rispetto a esso. O, ancora, qualcosa che entra in contatto con proprie “armi speciali” contro il corpo di qualcun altro.
Quel che è certo, intanto, è che è un festival di teatro d’integrazione sociale, la cui terza edizione si è svolta a Roma lo scorso fine settimana, il 7 e 8 giugno, al Cinema Palazzo.
A quale di queste reali o immaginarie definizioni esso voglia riferirsi non è detto, e forse conviene convincersi che è un po’ tutte e tre.
La prima, più banale: anticorpi contro la tendenza all’emarginazione; la seconda, un corpo diverso dal “normale”, quello del portatore di handicap; terzo, la sfida di quest’ultimo, l’impatto che suscita riflessione contro il corpo del non disabile.
Si tratta, infatti, di teatro d’integrazione, quell’indirizzo del teatro sociale che si occupa di disabilità in scena e attorno a essa. Ad Anticorpi se n’è parlato attraverso un programma concentrato, denso di spettacoli e soprattutto di laboratori.

Venerdì è andata in scena la compagnia Teatro Buffo con una prova aperta di “Tra festa e assenza” di Davide Marzattinocci, spettacolo che in realtà si presenta compiuto e raccoglie alcune parti degli spettacoli “La Festa” e “L’Assenza”, quest’ultimo, fa sapere la compagnia, ancora in lavorazione.

Quello del Teatro Buffo è un teatro a schegge, a frammenti, forse non tutti riusciti e magari un po’ troppo affollati e di diversa provenienza per una sola opera, ma a tratti fulminanti, spesso esplicitamente magici, o assurdi e surrealisti. Un tipo di scena che ospita volentieri la disabilità, perché i personaggi che lo popolano hanno nella diversità il loro carattere più affascinante.
È infatti impossibile restare indifferenti di fronte a corpi e allo stare in scena di attori il cui fisico sia segnato dalla disabilità: impossibile non fare un qualche paragone con l’attore non disabile, non cogliere la convenzionalità che i movimenti di quei corpi hanno e non rimanerne affascinato.

Per cercare di capirne le caratteristiche, facciamo tappa di passaggio per la figura del caratterista, quello buono per un solo ruolo. Si tratta di un attore le cui caratteristiche fisiche lo indirizzano verso una maschera, e che egli, più o meno cinicamente, accetta e il cui ruolo gioca, prendendo atto del suo corpo e usandolo.


L’attore non caratterista, invece, è alla ricerca, volta per volta, del personaggio; ha da fare elisioni, tagli (perché ogni riproduzione della vita è sempre scrittura di una parzialità), e conquistarsi una forza in sé che il caratterista si trova come uno strumento preimpostato, pronto all’uso, e che l’attore disabile dimostra invece di possedere immediatamente, anche, e talvolta soprattutto, laddove è debolezza. Solo apparentemente è un paradosso.
C’è il personaggio ciarliero, c’è quello tutto flemma, c’è l’amoroso sognatore âgé che non riesce ad agguantare l’amore, c’è la rudezza di una donna piccola ma dalla mano pesante, e la delicatezza di tocco di chi afferra un essere invisibile nell’aria con la punta di due dita. La vita è sul palco. Una dolce magia si scioglie da questi corpi, che ogni attore condivide col proprio personaggio grazie alla sicurezza di chi profondamente è, grazie alla sapiente riscrittura del drammaturgo.

A dividersi la scena nella serata dell’8 sono due compagnie. La prima è quella di danza integrata di Marisa Brugarolas, che presenta “Corpo in divenire”, progetto di residenza dell’Accademia di Spagna, su note di contrabbasso ed elettronica.
L’ambiente sonoro è affascinante e trainante, danzatori normodotati e altri in sedia a rotelle si uniscono e coprono lo spazio conquistandolo prima movimento dopo movimento, pezzo a pezzo, in una condivisione dello sforzo e del tempo, in risacche successive; poi occupandolo con momenti più personali, di una individualità che comunica con altre, simili.
Quando si perde la relazione lo spettacolo scema. La disparità di livello fra i partecipanti (disparità che si intende in senso orizzontale, tra artisti di pari abilità), rende discontinuo il risultato, e la ricerca di un movimento “altro” è ancora tutta da compiere.

Chiude la serata e il festival la chiassosa esibizione dell’orchestra dei Pezzi di Ricambio, che mostra la faccia più “sociale” di questo teatro sociale. Nel suo senso più ampio e sfaccettato, che richiama concetti come unione, condivisione e alleanza tra i partecipanti.

Dopo queste due giornate ci chiediamo quindi come costruire un sistema “accogliente” per la diversità a teatro.
Il Teatro Buffo ha avuto in questo senso ragione rispetto alle altre opere presentate non solo per aver creato uno spazio rappresentativo eminentemente proprio, tutto dedicato al corpo e alla presenza di attori diversamente abili (dei loro corpi), ma è riuscito a farlo in un contesto estetico che ignora la necessità di un giudizio condizionato. Al punto che – generosamente paradossale, stuzzicante e poeticamente parziale – è riuscito a far sembrare gli attori non disabili fuori luogo, impacciati tra tutte le dispersive difficoltà di cui la “normalità” infarcisce i nostri movimenti e le nostre parole.

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